I poveri in spirito, gli operatori di pace ed i poveri pacifisti

GLI INDEMONIATI DI “PAX CHRISTI”

Nella gara a chi la spara più grossa che accompagna l’isteria – quella sì temibile – seguita al varo del “decreto sicurezza”, non poteva mancar di far sentire la propria voce “Pax Christi”. Prima l’alto grido di dolore: “Offesa, atto eversivo e bestemmia: un’offesa alla famiglia umana, un atto eversivo della Costituzione italiana, una bestemmia contraria al Vangelo di Cristo”. Poi la chiamata alle armi degli idolatri della Pace: “Una bestemmia civile e cristiana così grande deve essere respinta da un’insurrezione nonviolenta. Rinnoviamo l’appello al Presidente della Repubblica, cui il 2 giugno scorso abbiamo mandato una lettera da Monte Sole, terra della Resistenza e di Dossetti, ad operare con urgente fermezza per respingere la deriva autoritaria e totalitaria basata sulla logica dello straniero-nemico che nasconde i veri pericoli della criminalità organizzata, della corruzione economica e politica, del degrado etico e che alimenta la paura, eccita gli animi al peggio, diffonde modelli di violenza e prepara mali più grandi. In piedi, costruttori di pace!” Cos’abbia a che fare la “Pace di Cristo” con questo gruppo di scalmanati è un mistero sempre più grande. Grosso modo rappresentano una delle tante manifestazioni ereticali di stampo pauperista che infestano la storia del Cristianesimo dalla sua nascita: una Gerusalemme Terrena, e solo quella, fa da sfondo al Sermone della Montagna per gli adepti di queste sette. I versetti del Vangelo secondo S. Matteo “Beati i poveri in Spirito perché di essi è il regno dei cieli” (Matteo, 5,3) e “Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figlio di Dio” (Matteo, 5,9) sono sempre stati idealmente i loro gridi di battaglia. Dato il grossolano macello interpretativo che se ne fa da parte di questi scriteriati, ma soprattutto da parte dei sapienti, eccomi qui a far piazza pulita di tante sciocchezze.

LA POVERTA’ IN SPIRITO

Essere povero in spirito non significa ovviamente essere il beota scimunito che certa oleografia relativa alla figura del poverello d’Assisi continua a veicolare ancor oggi. Essere povero in spirito, ossia povero nello spirito, significa non essere schiavo delle ricchezze, ossia non servire Mammona, ossia essere superiore alle cose di questo mondo, non dipenderne nel fondo dell’animo, non respingerle ma essere in grado – auspicabilmente – di rimanere pienamente se stesso quando se ne vanno, e non far dipendere il giudizio umano sulle persone su quanto hanno o non hanno. Ed è un concetto già presente fuori del Cristianesimo, ad esempio nella tradizione socratico-platonica, tra gli stoici e perfino tra gli epicurei, e questo non deve scandalizzare perché se Cristo non era ancora venuto, e con lui la risposta della Rivelazione, il Logos era fin da principio. Il disprezzo delle ricchezze di cui si parla nel Vangelo non significa disprezzare le cose, perché sarebbe come disprezzare la bontà della creazione: questa è un’eresia che ne compendia molte altre, ed è una forma mascherata di materialismo, quella che da secoli tira fuori per esempio la storia del fasto delle chiese, esemplificata nel Vangelo in vari episodi, tra i quali quello celebre dello “spreco” dell’olio profumato molto prezioso che una donna versa sul capo di Gesù e che scandalizza i presenti (Matteo 26, 6-13; Marco 14, 3-9; Giovanni 12, 1-8). Essere povero come sopra spiegato è un obbligo morale e non esiste nella Chiesa nessuna teologica opzione per i poveri nel senso materiale del termine, tranne ovviamente una particolare attenzione per chi si trova nell’indigenza. E quindi come il possessore di ricchezze materiali può essere povero nello spirito, così l’indigente può essere il ricco del linguaggio evangelico. Infatti come scrive S. Agostino: “Cosa vuole dire il Signore con le parole: «È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago anziché un ricco entri nel Regno di Dio»? In questo passo chiama ricco chi è avido di beni temporali e ne va superbo. All’opposto di questi ricchi ci sono i poveri in spirito, cui appartiene il Regno dei cieli. Che a questa categoria di ricchi, disapprovata dal Signore, appartengano tutti gli avidi di cose mondane, anche se ne sono privi, appare manifesto da quanto è detto dopo dagli uditori: «Chi potrà allora salvarsi?» È certo infatti che la quantità dei poveri è incomparabilmente superiore, per cui occorre comprendere che nel numero di costoro son computati anche quei tali che, pur non avendo ricchezze, sono tutti presi dal desiderio di averne. (S. Agostino, Questioni sui Vangeli, Libro II, 47).

LE TENTAZIONI DI CRISTO

Tutto ciò si ricollega al significato delle tentazioni di Cristo, che sta in questo, e riguarda tutti noi: che io riconosco, e lo riconosco in quanto confesso la mia umana natura, creata ad immagine e somiglianza di quella divina, che se anche fosse messa ai miei piedi tutta la potenziale bellezza del mondo – bellezza, perché negarla alla stregua dei cadaverici eretici di tutti i tempi, sarebbe di nuovo come negare la bontà della creazione – essa non saprebbe tuttavia guarire l’inquietudine dell’animo, non saprebbe soddisfarmi compiutamente e per sempre, perché essa rimane nel cerchio dell’incompiutezza e dell’imperfezione. In una parola, questo mondo, nella sua bellezza, nella sua vera bellezza, non è dove l’uomo trova il suo fine. Chi cerca in esso la sua felicità, la sua compiuta felicità, si abbassa e svilisce la sua natura. Non sarà povero nello spirito, sarà ricco, cioè schiavo delle ricchezze. Perché povertà nello spirito ci porta a giudicare le cose per quel che sono: non disprezzarle ma anzi apprezzarle, e anche grandemente, ma sempre per quel che sono. E’ per questo che è proprio del povero in spirito il saper apprezzare tutte le cose. La schiavitù delle ricchezze ci porta invece a passare continuamente dall’idolatria al disprezzo: l’idolatra cerca Dio nel raggiungimento di una cosa, e una volta raggiuntala, dopo un breve momento di ebbrezza, nell’insoddisfazione spirituale – che egli non sa o non vuole riconoscere – la disprezza; e cade nuovamente preda ad un nuovo idolo. In virtù di questa grande ma giusta ambizione i poveri nello spirito hanno un altro grande e giusto obbiettivo: “Beati i poveri in Spirito perché di essi è il regno dei cieli” (Matteo, 5,3)

IL REGNO DEI CIELI

Ciò significa che il regno dei cieli non è semplicemente la ricompensa (o non tanto, e non solo) per una particolare indigenza patita nella vita terrena, oppure ottenuta per la libera scelta dell’ascetismo, ma è la logica conclusione di un percorso di chi cerca il proprio bene ultimo fuori delle cose di questo mondo. E la vita terrena non è in contraddizione con quella celeste: cosi come l’uomo è stato fatto ad immagine e somiglianza di Dio, pure la terra è stata fatta ad immagine e somiglianza della Gerusalemme Celeste. Di essa è ombra, immagine e promessa: quella nuova, anzi, ci sembrerà più famigliare, perché risponderà perfettamente alla nostra natura. Per dirla con S. Paolo: “Sappiamo infatti che se la nostra abitazione terrena è una tenda che si demolisce, abbiamo un’abitazione in Dio, abitazione non fatta manualmente ma eterna nei cieli. E per questo gemiamo, bramosi di rivestirci del nostro edificio celeste, poiché così rivestiti non ci troveremo nudi. E infatti stando sotto questa tenda gemiamo del peso, perché non vogliamo essere svestiti ma rivestiti, affinché la mortalità sia inghiottita dalla vita. Colui che ci ha fatti proprio per questo è Dio, ed Egli ci dà il pegno dello Spirito. Così, sempre arditi e consapevoli che finché siamo domiciliati nel corpo siamo alienati dal Signore poiché camminiamo nel tempo della fede e non della visione; arditi dunque, giudichiamo un bene l’alienarci piuttosto dal corpo e domiciliarci presso il Signore.” (S. Paolo, Seconda Lettera ai Corinzi, 5, 1-8)

LA SPADA DELLA VERITA’

Non sarebbe male che le truppe ben inquadrate dei costruttori di Pace nostrani ci spiegassero come conciliano queste parole apparentemente disumane di Gesù col loro pacifismo universale: “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa. Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà; e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà.” (Matteo, 10, 34-39). Siccome qualcosa mi dice che il Figlio di Dio non avesse la lingua biforcuta è logico che la pace di cui si parla qui non è la pace degli “operatori”. Qui Gesù è una spada, una spada di verità che esige una risposta, e accende una speranza alla quale non dobbiamo rinunciare. La rinuncia alla speranza, questa mancata risposta, è la bestemmia contro lo Spirito Santo del Vangelo. Perché come la Fede sta al Padre, e la Carità sta al Figlio, così la Speranza sta allo Spirito Santo. “Perciò io vi dico: qualunque e peccato e bestemmia sarà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata. Chiunque parlerà male del Figlio dell’uomo sarà perdonato; ma la bestemmia contro lo Spirito non gli sarà perdonata né in questo secolo, né in quello futuro.” (Matteo 12,31) Chi rinuncia alla speranza nasconde sotto terra il proprio talento (Matteo 25, 14-30), o ripone la mina nel fazzoletto (Luca 19,11-26): se il peccato in genere è frutto della fragilità dell’uomo, e il parlar male di Dio o di Gesù può essere frutto di errore in buona fede – anche vita natural durante – , con la rinuncia alla ricerca del bene e alla speranza è l’uomo che attivamente si allontana da Dio: “Se uno vede il suo fratello commettere un peccato che non conduce alla morte, preghi e Dio gli darà la vita come a coloro che commettono un peccato che non conduce alla morte. Ma vi sono peccati che conducono alla morte; per questi dico di non pregare. Ogni iniquità è peccato; ma vi è peccato che non conduce alla morte.” (Giovanni, Prima Lettera).

L’AMORE

Ma come facciamo noi umanamente ad amare una persona che non abbiamo mai visto? Più dei nostri genitori e figli? Ricordiamoci che Lui è la Verità, la Via e la Vita. E allora noi dobbiamo amare la Verità più dei nostri figli e genitori. E l’ovvio corollario è che chi non ama la Verità più dei propri figli e genitori, non ama nemmeno quei figli e quei genitori. Sappia dunque chi sente di amare davvero, che egli ama, in senso evangelico, la Verità più dell’oggetto del suo amore: lo ama nella verità. E chi ama, crede, anche se magari non lo sa. Fuori della Verità, l’amore comunemente inteso, quando non è semplice calcolo o un ossequio facile a liturgie mondane, è solo un sentimento di possesso o di orgoglio riflesso che si trasforma facilmente in violenza omicida quando viene deluso. In quel caso, nel linguaggio evangelico, le “mogli e i figli” diventano cose, diventano idoli e “ricchezze” nel senso sopra spiegato.

LA PACE

Ma allora cos’è la pace? Ricordiamoci delle parole di Gesù nel Vangelo secondo Giovanni: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi.” (Giovanni, 14, 27) Quindi anche il mondo può dare la pace. Una falsa pace: qui si intende per “pace” un senso di fiduciosa sicurezza e di tranquillità. Chi la cerca nelle cose terrene non la può trovare. Anche qui il Cristianesimo viene incontro, con la risposta della Rivelazione – la “risposta”, questo è la sua caratteristica saliente -, alle domande che l’uomo sempre si è fatto e alle quali anche  i filosofi dell’antichità cercarono di rispondere: proprio negli anni in cui Paolo e Pietro trovarono la morte a Roma, un cittadino dell’Urbe come Seneca idealmente consegnava al Cristianesimo i frutti di secoli di filosofia morale greco-romana in tante pagine memorabili, come quelle, ad esempio, del “De tranquillitate animi”. “La tua fede ti ha salvato: vai in pace”: quante volte Gesù ripete queste parole, ed è come posasse la sua mano su di noi per calmare le nostre inquietudini. Gli “operatori di pace”, quindi, saranno chiamati figli di Dio perché sull’esempio di Gesù tranquillizzano e rinfrancano il prossimo. Che poi questo possa essere di stimolo alla concordia delle nazioni e delle persone non può essere negato. Ma quest’ultimo tipo di “pace”, per quanto positivo, rimane nel campo del “mondo”. Ciò detto, non vi pare invece che la Pace che tanto piace alla gente che piace somigli tanto alla gran baldracca di Babilonia?

[pubblicato su Giornalettismo.com]

One thought on “I poveri in spirito, gli operatori di pace ed i poveri pacifisti

  1. Nemmeno un curato di campagna avrebbe potuto fare meglio!! 🙂

    Scherzo, mi pare un pezzo molto profondo e di grande attualità. Bravo don Zamax!

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