Zamax: Me gustaria me dieras tu opinion sobre el sistema de gobierno italiano. Para nosotros aqui nos parece un sistema “raro”. Estabamos conversando con Claudio sobre la convenienza de este tipo de gobierno con respecto a los planes a largo o mediano plazo, con planes me refiero a politicas aplicables a problematicas del pais, quiero decir, como se puede planificar algo a mediano y largo plazo cuando se tiene la sensacion que se va a durar tres meses en el gobierno??? No lo se, me parece tan extraño este sistema que me parece que lo unico que sirve es para que los politicos se aseguren una jugosa pension de por vida. Mi papa esta contento que haya caido Prodi, no veia la hora, a Prodi parece que mucho no lo afectó segun muestran las fotos, haciendo jogging todo sonriente y conversando acaloradamente con su peluquero. ¿Se viene el “Attalismo italiano”?
Non saprei rispondere a questa domanda se non partendo dalla caratteristica peculiare della vita politica italiana del dopoguerra. Esiste ancora il fattore K, come lo chiamò una volta per tutte Alberto Ronchey, l’anomalia tutta italiana di una sinistra in maggioranza comunista? O almeno i suoi effetti sono ancora visibili? Al contrario di molti, io penso di sì. E al riguardo, e di nuovo al contrario di molti, credo che le prossime elezioni di aprile saranno epocali, alla stregua di una terza e definitiva guerra punica. Per un quarantennio dalla fine della seconda guerra mondiale fino allo sgretolamento dell’impero comunista nei paesi dell’Europa dell’Est negli anni ‘80, l’Italia ha avuto un sistema politico bloccato tra l’opzione atlantica e occidentale della Democrazia Cristiana e dei suoi satelliti, e il peso sempre crescente della fazione comunista nella società, che d’altra parte costituiva – stante la glaciazione dei rapporti internazionali determinati dalla guerra fredda – una sorta di assicurazione della DC sulla guida del paese. Il governo per i democristiani italiani divenne perciò una sinecura. E le frequentissime quanto innocue crisi di governo, facilitate dalla debolezza istituzionale della figura del presidente del consiglio uscita dalla Costituzione antifascista, furono il modo per regolare tra loro cervellotici equilibri di potere.
Così che fino all’irrompere nella scena politica della sinistra riformista e occidentale di Craxi negli anni ’80, ossia per più di un trentennio, in realtà si può parlare di un sostanziale continuum, una lunga, interminabile fase di governo nel quale i ripetuti avvicendamenti di ministri o di primi ministri avevano ben pochi effetti sull’ordinaria amministrazione del paese. Fino a tutti gli anni ‘60 la cosa fu relativamente facile e senza conseguenze, almeno in una logica di corto respiro, in quanto si trattava di governare la lunga fase inerziale di crescita economica tipica di un paese in fase di sviluppo. La filosofia di governo, tuttavia, impercettibilmente ma a lungo andare profondamente, prese una fisionomia economico-politica di stampo sempre più statalista. Questo era l’esito di una dinamica interna al paese. La natura particolarmente settaria, militante, comunista, della sinistra di casa nostra ebbe buon gioco nell’organizzare nel ventre molle dell’Italia democristiana una rete sempre più vasta di potere, in virtù di una solidarietà ideologica trasversale che si muoveva come un falange nella società italiana. Per venire a patti con questa sorda minaccia e conservare la pace sociale nel paese, la classe politica democristiana, forte dell’impossibilità di un normale ricambio politico, cominciò lentamente, fin dagli anni ‘50, ad abbandonare passo dopo passo la rappresentanza del proprio elettorato nei fatti moderato o conservatore. La storia della DC dalla fine della seconda guerra mondiale al 1992, l’anno di Mani Pulite, è la storia di una lentissima, lunghissima, progressiva diserzione. L’incredibile numero di correnti democristiane – nate, morte, risorte, rinate sotto nuovo nome – oltre ad essere in gran parte di sinistra, nella quasi totalità cercavano la loro identità particolare nel modo di rapportarsi con la sinistra. Ciò significa che fin quasi dalle origini i democristiani avevano incominciato a cercare la loro legittimità a sinistra, e a vedere il futuro e il mondo con gli occhi della sinistra, precludendosi così una propria originale e sensata modernizzazione. E non è certo un caso che già negli ’40, ma soprattutto negli anni ’50 dopo la scomparsa di De Gasperi, furono i Dossetti, i Fanfani, i La Pira, i Gronchi – i democristiani minoritari dell’Italia rossa tosco-emiliana – a dare la sterzata decisiva al partito.
La protagonista di questa progressiva mutazione fu una razza particolarmente vile: psicologicamente parlando, il democristiano di sinistra, o quello deambulante sul piano inclinato dell’ineffabile centro, è il perfetto conformista. Vivendo in Italia egli si trova vieppiù lacerato tra due realtà spesso conflittuali, alle quali la sua mentalità gl’intima di conformarsi: la tradizione cattolica (la tradizione, non la religione) e una cultura egemonizzata dalla sinistra. In certi casi patologici, prima di crollare, tanto più cede alla seconda, tanto più manifesta nelle pratiche religiose una sorta di grottesco atletismo devozionale. E come tutti i soggetti sensibili alla Sindrome di Stoccolma è tirannico coi suoi, avendo imparato in fretta dal temuto avversario l’arte giacobina di prendere il potere con le minoranze organizzate.
Il fenomeno dei democristiani di sinistra fu solo la replica a livello politico di quanto successe in tutte le pieghe della società italiana, dalla magistratura fino al mondo dell’economia. Oggi la sinistra, almeno quella che il Partito Democratico intende rappresentare, avendo allevato in tutti settori della società una sua nomenklatura, sempre più somigliante alla nomenklatura tout-court, non riesce più ad esprimere, a proiettare un’idea di se stessa. La sinistra, dispensatrice di anatemi e benedizioni, per rimanere antropologicamente comunista e giacobina, e per resistere allo stesso tempo alla modernità, senza esser costretta ad abiurare con un onesto, schietto, europeo, ma doloroso sbocco socialdemocratico, doveva diventare una griffe: la griffe dei migliori. I migliori sindacalisti, come i migliori imprenditori; i migliori cattolici come i migliori laici; i migliori difensori dello stato sociale come i migliori liberali; e poi i migliori intellettuali, i migliori magistrati, i migliori banchieri, i migliori artisti, e perfino i migliori …cuochi. Ora con l’approssimarsi delle elezioni, del tutto il linea con la vulgata di un PCI baluardo della democrazia e del feticismo costituzionale, nonché sovietico partito degli onesti di berlingueriana memoria, eccoti pure l’apparentamento con l’Italia dei Valori del giustizialista Di Pietro. Ma basterà, nel 2008, il richiamo della foresta della superiorità morale e intellettuale, tipico della setta, per tenere insieme il popolo della sinistra dietro le insegne di un partito che – con Veltroni ancor più che con Prodi – è l’interfaccia patinata della rete dei poteri consolidati e conservativi del nostro paese, dalla Corte Costituzionale alle Associazioni criptosindacali dei Consumatori? Valgono ben poco i programmi, o le buone quanto vaghe intenzioni di rinnovamento, quando si rappresenta, nei fatti, il vecchio. Io non credo che il Partito Democratico, almeno questo Partito Democratico, sarà il futuro della sinistra italiana. Dico che le camaleontiche trasformazioni, di facciata beninteso, che dovrebbero con un colpo di bacchetta magica antistorico porre l’Italia mancina all’avanguardia in Europa provocheranno un rigetto nell’elettorato storico della sinistra, stanco delle sfilate mondane della bella politica e anche degli strilloni dell’antipolitica, e se il candidato Veltroni, per quanto magnificato dalla grancassa dei media – ora che per causa di forza maggiore anche La Repubblica ha dovuto abbandonare la sua filosofia politica unionista e pansinistrorsa, i grandi giornali parlano veramente la stessa lingua, tranne per qualche voce isolata – se il candidato Veltroni, dunque, non saprà illudere il suo popolo fino all’ultimo con la prospettiva realistica di una vittoria elettorale, sarà proprio alla sua sinistra che rischierà di veder franare l’appeal della sua campagna elettorale.
Quant’è diversa invece la parabola del vecchio Berlusconi! All’epoca del Terrore della Rivoluzione di Mani Pulite, ebbe l’ardire e la lungimiranza strategica di guardare oltre la politique politicienne e di scommettere sull’Italia disertata politicamente dalla DC e disprezzata dalla cultura, l’Italia dei ceti medi, gran parte di quella muta Italia sepolta fino allora nell’anonimato della polverizzazione produttiva padana, l’Italia della diaspora socialista, e anche l’Italia di destra, ammorbidita da mezzo secolo di esperienza parlamentare, ma ancora colpita dall’ostracismo dell’arco costituzionale. E’ sintomatico che dopo quindici anni dalla discesa in campo del Cavaliere, ora che anche Casini nel momento decisivo non ha resistito ed è tornato a cuccia in quella virtuale area di centro che da Martinazzoli a Follini è stata il nosocomio della fatale patologia democristiana, oggi si arrivi ad uno scontro – secondo me finale – che vede da una parte, sotto nuovi nomi, gli eredi diretti dei partiti storici della cosiddetta prima repubblica, quelli risparmiati da Tangentopoli e i resti sparsi e addomesticati dell’ex pentapartito, cioè la cadaverica sublimazione della vecchia classe politica, e dall’altra parte sostanzialmente l’alleanza tra Lega Nord, Forza Italia ed Alleanza Nazionale, cioè tra due formazioni politiche nate negli ‘80 e ‘90 e gli eredi della riserva indiana missina.
La differenza fondamentale tra le due coalizioni, al di là della sceneggiata dei programmi, è che alle spalle di Berlusconi c’è un’Italia che ha molto meno da perdere da scelte drastiche. E se nell’epoca del maggioritario, mentre le esperienze di governo Prodiane sono crollate tutte e due sotto i colpi delle divisioni interne del fronte popolare antiberlusconiano, con una somiglianza puramente esteriore con la dinamica dei governi democristiani di una volta, solo l’ultimo governo Berlusconi è riuscito, bene o male, a stare in sella per i cinque anni di una congiuntura economica internazionale difficilissima, questo lo si deve non poco alla riposta, indiretta pressione dell’elettorato di un centrodestra assai più unito alla base che al vertice.
(Consiglierei però vivamente agli aspiranti liberalpopolari di lasciar perdere le suggestioni programmatiche della Commissione Attali. Esse ubbidiscono nel fondo ad un’aggiornata filosofia politica di stampo statalista in versione tecnocratica. Lo stato, in questa visione statica e riduzionistica della società, è concepito come una macchina sofisticatissima da rimettere periodicamente a punto con centinaia di accorgimenti tecnici; che sono così tanti appunto perché bisogna far quadrare il cerchio, e non scontentare nessuno; e sono tecnici perché suppostamente indolori.)
El boludo
Update del 09/02/2008: piano piano la verità viene a galla. A conforto della mia analisi ecco gli interventi di Galli della Loggia sul Corriere, specialmente laddove scrive:
Non credo che si tratti solo di un calcolo di piccolo cabotaggio politico; la risposta va cercata più a fondo. Va cercata cioè nella tradizione specifica di quella parte del Pd di cui sopra che affonda le radici nelle vicende del comunismo. Che da quelle vicende, pure così lontane, ha acquistato a suo tempo abiti psicologici e modelli di pensiero, ha ereditato una vera e propria antropologia politica.
[…] E sì che invece la funzione sua [di Prodi, N.d.Z.] e dei suoi amici rispetto agli eredi della tradizione comunista è stata davvero preziosa. Se ci si pensa bene, infatti, sono stati Prodi e i cattolici cosiddetti democratici, è stata proprio la loro presenza, la sponda politica da essi offerta, che ha consentito agli ex Pci di non diventare ciò che a nessun costo la maggioranza di essi, in obbedienza al proprio codice genetico, voleva diventare: socialdemocratici. Che cioè ha evitato quello che altrimenti sarebbe stato l’esito ovvio, direi inevitabile, della fine della loro vicenda.
E di Lodovico Festa sul Giornale, di cui segnalo la chiusa:
Comunque quella che stiamo vivendo è la fine di una stagione, in cui l’organizzazione del centrodestra è stata costretta a un modo di agire sia nella definizione del programma sia nella selezione dei candidati molto concentrato, dall’asprezza dello scontro non solo con il centrosinistra ma anche con larghi settori dell’establishment, in tempi abbastanza recenti anche confindustriale. Questa stagione emergenziale sta finendo, il voto quasi sicuramente per il centrodestra del 13 e 14 aprile chiuderà non solo una vicenda politica contingente ma la fase storica della guerra senza tregua a Berlusconi. Nella nuova fase sarà determinante per un centrodestra che vuole governare al meglio, sollecitare in prima persona l’impegno della borghesia produttiva, rimuovendo gli ostacoli organizzativi che ne hanno limitato la mobilitazione.
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