La nazione e la repubblica universale

Tra i nazionalisti si è soliti dire che la «patria è sacra». Ora, la patria non può essere effettivamente sacra. Tale affermazione intesa in senso assoluto è un’aberrazione; in senso analogico è errata; in un inequivoco senso metaforico può essere però accettabile, essendo riferita a qualcosa di importante e naturalmente caro a una moltitudine di persone riunite da una storia comune, la quale, però, in ultima analisi non trascende il divenire. “Sacro” in senso proprio può essere solo ciò che inerisce a Dio, a ciò che trascende il divenire, a ciò che è essere e bene per essenza. L’umanità, fatta a immagine e somiglianza di Dio, può solo accogliere questa sacralità che le viene offerta, insieme alla collegata promessa, diventando «tempio di Dio» [1Cor 3,16] e riscattando con sé dalla «futilità» [Rm 8,20] anche il resto della creazione. La patria perciò non può creare valori in senso assoluto, e tutti quelli che pubblicamente difende non possono essere in contrasto con Dio, il quale essendo, come detto, essere e bene per essenza, è anche misura di ogni valore. Se non lo fa, la nazione si mette al posto di Dio: diventa idolo.

Si parla comunemente anche dell’anima di una nazione. Pure questa espressione può essere accettata solo in senso metaforico. L’anima propriamente detta – la cosiddetta anima razionale – è unicamente prerogativa dell’uomo. Il fatto che la nazione sia una comunità di uomini non ne cambia la natura di cosa interamente soggetta al divenire, al contrario di quanto avviene per l’uomo: l’uomo, infatti, viene prima della nazione e ciò che in lui è retaggio nazionale, per quanto considerevole possa essere, rimane accidente. In vago senso analogico – ma non propriamente analogico, sottolineo – e con più precisione si potrebbe piuttosto dire che una nazione ha un corpo e un’anima. Ma in questo caso l’anima, che partecipa di ciò che ha vita per essenza, non potrebbe riferirsi agli elementi che compongono e nutrono la storia di una nazione, per loro natura soggetti al divenire e quindi mutabili e perituri: questi ultimi ne rappresentano piuttosto il corpo, o la “materia quantitate signata” di Tommaso d’Aquino e quindi il suo “principio d’individuazione”; è lo spirito universalistico, che la vivifica e la affratella alle altre nazioni, che in realtà gioca in essa il ruolo dell’anima, e quindi della “forma”, secondo quanto fu detto da Dio ad Abramo: «tu diventerai padre di una moltitudine di nazioni» [Ge 17,4].

L’universalismo cristiano non solo non uccide i corpi delle nazioni, cioè il retaggio delle loro storie particolari, ma li tiene in vita modellandoli con dolcezza, alla stregua di ogni corpo vivente del nostro mondo, il quale deve mutare impercettibilmente ogni giorno per vivere. Così facendo l’universalismo cristiano attua col tempo un’universale convergenza delle nazioni senza annichilirle. L’universalismo anticristiano invece uccide i corpi delle nazioni imponendo loro il proprio, che dell’anima è solo una contraffazione. Fatto questo, dell’anima non resta più traccia, e il corpo universale non più vivificato è destinato a collassare, esattamente come il corpo della nazione, come sempre succede quando ciò che chiamiamo Divenire (che è insieme la catena storica degli eventi e il modo d’essere di questo nostro mondo) pretende di disfarsi di ciò che chiamiamo Essere e di essere l’Essere: in altri termini quando ciò che identifichiamo con la parola Tempo in senso lato (e non in senso proprio come “misura del movimento”, cioè il tempo quale ente di ragione) pretende di essere ciò che identifichiamo con la parola Eterno.

Lo spirito democratico-repubblicano, o democraticista che dir si voglia, non mette in genere troppo l’accento sulla patria e rifiuta in linea teorica il nazionalismo, anche se tende con grandissima facilità a ricadervi per quell’eterogenesi dei fini con la quale il destino castiga chi costruisce sulla sabbia, e per l’ambivalenza che è connaturata all’errore. Tale spirito tende anch’esso a creare dei valori, la qual cosa, però, intesa in senso stretto, oltrepassa le possibilità dell’uomo: se l’uomo creasse dei valori, per definizione questi non potrebbero essere che falsi, perché la realtà è data e non può essere ricreata. E quindi non possono esistere valori “democratici” che non trovino in Dio la loro origine. Lo stato repubblicano si pone tendenzialmente su un piano universalistico, o di amicizia universalistica, ma nel momento in cui si sottrae alla luce di Colui che è misura di ogni valore, convertendosi in un’entità cosiddetta laicista, lo spirito democraticista finisce per usurpare e storpiare quella paternità vera che sta alla radice di ogni vera fratellanza: in un certo senso ricrea un’umanità che esso non ha creata, e ciò spiega anche la sua inclinazione per la rivoluzione e per l’imperialismo, e i sogni ricorrenti di una repubblica universale. Così facendo, la repubblica si mette al posto di Dio.

E’ perciò chiaro che l’universalismo anticristiano e il nazionalismo, in maniera opposta, tendono alla sacralizzazione immanentistica del divenire (in concreto, quindi, alla sacralizzazione dello stato): rivendicano cioè per l’umanità la possibilità di trovare un destino compiuto, una compiuta maturità, una dimora “eterna” tra le pareti di questo mondo, alla quale il singolo non giunge attraverso una resurrezione che lo riscatti dalla morte, ma piuttosto attraverso una vita mortale che si sublimi iscrivendosi in una sorta di infinito (o eterno nel tempo) processo o principio vitale, universale o nazionale. Ciò vale sia per le nuove manifestazioni di pseudo-religiosità esoterico-panteistica risvegliatesi nel secolo scorso, sia per i cripto-millenarismi che si sviluppano nel seno del cristianesimo senza rinnegarlo apertamente, ma che di fatto arrivano allo stesso risultato non incardinandolo su una vera resurrezione (che non sia solo quella spirituale terrena, la “prima”, e per di più in questo caso necessariamente inautentica). La morte che ritrova vita inscrivendosi in un processo vitale infinito (eterno nel tempo) è un simulacro di resurrezione, il processo vitale infinito (eterno nel tempo) è un simulacro di vera eternità: falsissima e penosa consolazione, che solo l’orgoglio può spacciare per vera.

Perché al fondo di tutti questi variegati sviluppi vi è sempre la stessa ragione: il rifiuto della paternità di Dio, e il tentativo di dividere il Padre dal Figlio, e di mettere un Figlio snaturato al posto del Padre, e di mettere l’umanità al posto di Dio attraverso un’interpretazione perversa e antropocentrica dell’Incarnazione, secondo la quale il Verbo entra nel mondo non per condurci alla dimora eterna, ma per trovare Lui dimora in essa, in una sorta di divinizzazione della terra e dell’umanità mortale. E questo, a ben vedere, subdolamente accade pure sia in certo esistenzialismo fideistico, fradicio di umanitarismo e di paradossi, nato per reazione a questi stessi sviluppi; e sia nel “superuomismo” che dall’eredità cristiana ci vuole liberare: è una “fedeltà alla Terra e all’Umanità”, sentiti come princìpi e fini dell’esistenza, che ognuno declina alla sua maniera, e queste maniere possono essere infinite, esplicite o implicite.

Si ritorna dunque al punto di prima: la pretesa del Divenire di disfarsi dell’Essere e di essere l’Essere. Per prendere a prestito due espressioni di certa filosofia sempre prodiga di trovatine lessicali semi-esoteriche, il polo millenaristico cui guarda l’universalismo anticristiano potrebbe essere lo “spirito assoluto”, mentre quello a cui guarda il nazionalismo potrebbe essere l’ “esser-ci”, cioè una sorta di “spirito assoluto” su scala nazionale. Che poi l’uno travalichi nell’altro è cosa del tutto naturale; per due motivi: astrattamente, perché l’errore, come già detto, è per sua natura instabile, incoerente e ambivalente; concretamente, perché se non si trova un’idolatrica pienezza di vita nella repubblica universale, si può sempre cercare di trovarla nella patria, come dimostra, per esempio, il reciproco travaso di militanti tra il socialismo internazionalista e quello nazionalista nel secolo scorso.

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