L’Ucraina e le colpe dell’Occidente

Al momento del suo disfacimento l’Unione Sovietica perse il Kazakistan, il Turkmenistan, il Tagikistan, l’Uzbekistan, il Kirghistan, la Georgia, l’Armenia, l’Azerbaigian, la Moldavia, l’Estonia, la Lettonia, la Lituania, la Bielorussia, l’Ucraina e forse qualche altra zolla di terra che non ricordo al momento. L’«Impero Sovietico» perse inoltre i paesi del Patto di Varsavia: la Polonia, la Cecoslovacchia, la Germania Est, l’Ungheria, la Romania e la Bulgaria. La Russia rientrò allora nei suoi più stretti confini “naturali”, e nella sua pur sempre sgomentevole vastità era la Russia più piccola dai tempi di Pietro il Grande, quando San Pietroburgo era ancora allo stadio palafitticolo.

All’inizio di questo millennio perciò anche l’Europa aveva ritrovato i suoi confini “naturali” e li aveva consolidati, approfittando dell’estrema debolezza russa, con l’entrata degli ex paesi del Patto di Varsavia e di quelli baltici nell’Unione Europea e nella NATO.

Rimessosi a stento in piedi, il pachiderma russo (nel senso della vastità territoriale, abbastanza in quello militare, niente affatto in quello demografico ed economico) col tempo ha ricominciato a camminare con qualche sicurezza e a cercare di ritrovare un po’ della sua antica influenza sulla vasta zona turco-asiatica che ha perduto. Cosa che a un non accecato Occidente in fondo non dovrebbe affatto dispiacere.

In un quadro mondiale segnato dalle convulsioni islamiche e dall’emergere di nuove potenze asiatiche dalla demografia a nove zeri, terminate in qualche precario modo le guerre jugoslave, e decantate le frizioni per l’intervento americano in Afghanistan e Irak, sembrava allora giunto il momento ideale per provare ad agganciare, senza assorbirla naturalmente, la Russia a quell’«Occidente cristiano» alla quale essa in senso lato senza dubbio appartiene, in una sorta di collaborazione su vasta scala in cui però ognuno stava al posto suo. L’Europa e gli USA avevano tutto l’interesse di fare di una Russia non più ostile e non più percepita come nemica, senza alcun bisogno di violentarne la fisionomia storico-culturale ma in qualche modo plasmandola, una sorta di baluardo orientale di questa civiltà cristiano-occidentale. Questo voleva dire pensare in grande e con lungimiranza, e allo stesso tempo con equanimità.

Invece l’Occidente fu preso dall’hybris, e con eccezionale cecità strategica scelse di forzare la situazione sulla linea di quei “confini naturali” che si erano ristabiliti tra Russia e Europa, mirando esplicitamente a far entrare nella NATO la Georgia e soprattutto l’Ucraina. Di tutte le perdite post-sovietiche quella dell’Ucraina fu certamente e di grandissima lunga la più sentita in Russia. Da un punto di vista demografico, economico, ma soprattutto storico, culturale, affettivo, si può dire che l’Ucraina da sola contasse più di tutto il resto dei territori perduti e resisi indipendenti dopo il crollo dell’URSS. Come scrisse Henry Kissinger in un articolo del 2014: «The West must understand that, to Russia, Ukraine can never be just a foreign country.» Questo era semplicemente un fatto, piacesse o no. Al quale non si poteva passare sopra con la logica del “tanto peggio per i fatti”.

L’Ucraina disegnatasi nei suoi confini amministrativi ai tempi dell’URSS – e da più di un decennio indipendente – era un vasto paese disomogeneo, e ancora, per così dire, irrisolto dal punto di vista del sentimento nazionale. Inoltre, con l’indipendenza era iniziato anche un processo di “ucrainizzazione”, inevitabile stante la natura degli stati nazionali moderni, ma foriero di tensioni. Tra la Leopoli cattolica ed ex asburgica (la sola piccola zona propriamente europea dell’Ucraina) e le terre russofone dell’est e anche del sud del paese, fino alla Crimea un tempo ottomana ed ora in maggioranza russificata, vi era un’enorme differenza di sensibilità riguardo al significato e all’estensione del vocabolo “ucraino”. Solo la parte rimanente del paese restituiva l’immagine di un’Ucraina sufficientemente omogenea, sostanzialmente o in primo luogo ucrainofona e cristiano-ortodossa.

In un contesto simile l’obiettivo di portare l’Ucraina dentro l’alleanza atlantica e quindi anche nell’Unione Europea, se ostinatamente perseguito, poteva condurre solo a tre esiti: un violento approdo in Occidente; un violento riassorbimento nel mondo russo; una violenta divisione del paese. All’Ucraina veniva di fatto imposto di scegliere tragicamente se stare di qua o di là. E su questo punto non bisogna offendere la verità: se proprio bisogna tragicamente scegliere allora nessuno può seriamente negare che l’Ucraina appartenga molto di più al mondo russo – al mondo slavo orientale cristiano-ortodosso – che a quello propriamente europeo.

Ma l’Occidente sperava che la tattica degli annunci e il lavorio propagandistico potessero bastare a mettere in moto in Ucraina le forze necessarie affinché ciò si realizzasse senza dover ricorrere a prove muscolari – se non quelle di piazza – o propriamente belliche. E’ assai improbabile che in certi ambienti politici di Kiev si cominciasse a parlare di Ucraina nella NATO e in Europa, se non vi fossero state sollecitazioni in questo senso da parte occidentale e se non si fosse sicuri di avere qualche sponda importante in Occidente, vista la potenzialità dirompente di un tale indirizzo politico, cui non era estraneo il desiderio di rafforzare, se non proprio di forgiare, un sentimento nazionale ucraino sulla base dell’ostilità alla Russia.

Piaccia o non piaccia, ciò era semplicemente troppo per la Russia. Non per Putin, ma per i russi. Come scrisse ancora Kissinger nell’articolo sopracitato: «Even such famed dissidents as Aleksandr Solzhenitsyn and Joseph Brodsky insisted that Ukraine was an integral part of Russian history and, indeed, of Russia.» Da allora le mene del Cremlino, già da tempo all’opera, si fecero ancora più pressanti. Ma non si trattava più della lotta sorda, ma in fondo fisiologica e “legittima”, tra potenze straniere per guadagnare maggiore influenza nel paese. In un contesto come quello ucraino, sullo sfondo della storia ormai millenaria di Russia e Ucraina, agitare lo spettro della NATO – di cui peraltro non fanno parte senza che ne risulti gran danno, ricordiamocelo, paesi oggi perfettamente incastonati nel contesto europeo/occidentale come Svezia, Finlandia, Austria, Svizzera e Irlanda – significava entrare in una logica cripto-bellica. Di cui l’Occidente però non voleva farsi carico: come per le ambigue primavere arabe degli anni a venire gli occidentali speravano di fomentare e raccogliere.

La ragione, il buon senso, la presenza di spirito, e anche un sentimento d’imparzialità, avrebbero invece dovuto consigliare di seguire la via dell’avvicinamento strategico alla Russia: collaborare avrebbe significato necessariamente condizionare la Russia, anche nell’oggettivamente delicato teatro ucraino, se essa avesse voluto accogliere i vantaggi di questa nuova relazione. Questo era il vero realismo, non la sua caricatura cinica, soprattutto poi quando questo realismo miope non lo si sapeva e neanche lo si voleva portare a effetto, e con la Russia ci si barcamenava schizofrenicamente tra l’affarismo terra terra e l’ostentata demonizzazione di una Russia “neozarista e reazionaria”. E fu così che la cecità dell’uno si accompagnò alla cecità dell’altro.

Nel lontano 2007 scrissi che, a dispetto di quanto allora comunemente si vaticinava (e spesso si auspicava), per come si stava disegnando il mondo all’alba del nuovo millennio l’alleanza USA-Europa non solo avrebbe continuato ad avere un senso, ma sarebbe stata «inevitabile». Lo confermo. Ma mi spiace immensamente che a confermarlo sia una vicenda in cui le colpe dell’Occidente sono gravissime. E la ragione di ciò sta nel fatto che il mondo politico liberal-progressista ha spudoratamente fatta sua, sfigurandola, la causa dell’Occidente sulla quale prima del crollo dell’URSS esprimeva tutto il suo disprezzo; e che a questa mossa opportunistica quello conservatore non ha saputo rispondere, e di fatto si è adeguato all’agenda progressista in materia, come ha fatto nelle altre, pena la scomunica da parte dei nuovi “occidentalisti” giacobini, molto spesso ex marxisti fatti e finiti.

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