L’incubo di una cosa

Nonostante la sua militanza a sinistra, Pier Paolo Pasolini fu uno di quegli inconsolabili conservatori che l’ala della morte sembra sempre accompagnare. Non era cristiano; era un pagano della cristianità, perché il paesaggio della civiltà cristiana costituiva il mondo nel quale la sublimata carnalità dell’uomo, e del suo lavoro, si faceva spiritualità d’artista, piuttosto che di filosofo: uno squarcio intatto di civiltà contadina; la pietra di un’architettura anche umilissima, purché ben stagionata; una suburra cenciosa, ma nobile se nei secoli fedele a se stessa; un vernacolo antico ed incorrotto, odoroso d’erbe e di sudori. Egli cercava una tangibile e quindi impossibile verità: cercava la vita cercando la morte, perché la vita è cambiamento e corruzione. E vita era anche quella “civiltà borghese” che tutto corrodeva e falsificava, e che egli non accettava. Solo così si può capire la sua contraddittoria adesione al partito della secolarizzazione brutale, il PCI: anch’esso ambiva ad una cristallizzazione finale della società, anche se nella direzione opposta a quell’impossibile cristallizzazione terrestre della vita che doveva dar forma al “sogno di una cosa” dello scrittore. Pasolini lo sapeva, ma non riusciva a preferire all’afflato parareligioso del Partito Comunista la mediocrità “borghese” dei partiti democratici. Vi si affiliò idealmente con l’animo di chi accetta o cerca un padrone, o un padre incapace di comprenderlo, in espiazione di qualche colpa misteriosa; nonostante i partigiani rossi gli avessero ucciso il fratello, partigiano bianco; nonostante il partito lo avesse espulso a causa della sua omosessualità. Fu disperatamente irregolare e tragicamente organico. Fedele a se stesso, e alla sua sensibilità, nel ’68 parteggiò per i poliziotti, figli del popolo, contro i dimostranti, figli di papà. Fedele, a suo modo, alla carne, si pronunziò contro l’aborto. Sottomesso al padrone, con l’intuito dell’artista, e con la straordinaria, umiliante, ingenuità di uno studentello, tradusse per il popolo in parole semplici il mito della diversità comunista che una propaganda instancabile aveva costruito per decenni. Lo fece nel 1974, dalle colonne del giornale principe della borghesia, il Corriere della Sera, senza che gli passasse neanche lontanamente per la testa l’ironia della cosa:

Ma non esiste solo il potere: esiste anche un’opposizione al potere. In Italia questa opposizione è così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi riferisco naturalmente al Partito comunista italiano. È certo che in questo momento la presenza di un grande partito all’opposizione come è il Partito comunista italiano è la salvezza dell’Italia e delle sue povere istituzioni democratiche. Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico. In questi ultimi anni tra il Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario – in un compatto “insieme” di dirigenti, base e votanti – e il resto dell’Italia, si è aperto un baratto: per cui il Partito comunista italiano è divenuto appunto un “Paese separato”, un’isola. Ed è proprio per questo che esso può oggi avere rapporti stretti come non mai col potere effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici, quasi da nazione a nazione. In realtà le due morali sono incommensurabili, intese nella loro concretezza, nella loro totalità. È possibile, proprio su queste basi, prospettare quel “compromesso”, realistico, che forse salverebbe l’Italia dal completo sfacelo: “compromesso” che sarebbe però in realtà una “alleanza” tra due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno nell’altro.

Nessun dirigente di partito si sarebbe mai esposto così comicamente. Ci pensò l’uomo di cultura e compagno di strada a dire quello che il funzionario non poteva dire. Pasolini non ricevette ordini; si mosse con la perspicacia della vittima, e assolse benissimo il suo compito. Oggi lo possiamo dire, a quasi quarant’anni di distanza. Doveva essere chiara una cosa al popolo di sinistra, e soprattutto ai compagni che “sbagliavano”: la politica del “compromesso storico” lanciata un anno prima da Berlinguer non metteva in discussione la divisione antropologica degli italiani, non significava “legittimare” l’avversario politico. Qualche anno dopo, infatti, Berlinguer la esaltò di nuovo nella stagione funesta della “questione morale”. Ancor oggi, per un piccolo ma non trascurabile, e soprattutto influente, esercito di ultimi giapponesi composto da vecchi ipocriti, da fanatici, e da giovani ingenui, la questione italiana si ripropone nei medesimi termini. Non si lamentino allora coloro che, paventandola, rischiano di sorbirsi fra non molto, per la legge del contrappasso, la santificazione di Craxi.

[pubblicato su Giornalettismo.com]

Alcuni miei commenti sul sito di Giornalettismo.com

  1. Ho parlato non a caso del PCI (ma intendendo in senso lato anche il comunismo) come partito della “brutale secolarizzazione” e non della “secolarizzazione” e basta, perché, ma qui sarebbe un discorso lungo, ritengo la secolarizzazione stessa figlia della civiltà cristiana, ossia, per me, della civiltà occidentale. Il Cristianesimo non è il Tradizionalismo, se si intende con questo termine ciò che è legato alla nazione, alla cultura, alla lingua, ai “costumi”, e anche alla “moralità” dei costumi, nel senso più superficiale del termine. Tradizione che il Cristianesimo rispetta, ma non mette al posto di “Dio”. Nell’antichità la carica “corrosiva” del Cristianesimo era bene avvertita. Ancor oggi il suo Universalismo gli impedisce di andare d’accordo con il conservatorismo duro di chi non accetta nessun cambiamento. Come vediamo bene sui temi della globalizzazione o dell’immigrazione. Detto questo, era contraddittorio per uno come Pasolini appoggiare – visto che “sposare” sarebbe un termine improprio per uno come lui – un’ideologia che delle tradizioni faceva tabula rasa. Ma evidentemente l’alone messianico e puro del comunismo agiva su di lui.
  2. La “grossolanità” politica di Pasolini sta nel fatto che proprio a lui è toccato di farsi interprete della “pancia” della sinistra, dei suoi impulsi più gretti e violenti e veri. Ancorché in superficie democratici e legalitari. E’ come se questo urlo avesse bisogno di una firma illustre che ne dasse lustro e dignità. Mi son chiesto perché è toccato proprio a lui. E perché ci si sia prestato. E ci vedo qualcosa di tragico.
  3. Sul ‘68. Pasolini nelle facce dei giovani che scendevano in piazza vedeva anche troppo bene i figli della “borghesia” con i loro capricci e le loro mediocrità. Solo che avviluppava il tutto nella sua mistica anti-borghese, che in realtà non voleva dire nulla, per cui lui ci vedeva solo decadimento morale, consumismo, e quindi un larvato “fascismo”. Una bella sensibilità, una bella sincerità, e una sociologia da quattro soldi. Mai e poi mai fatta propria dalla sociologia da quattro soldi del PCI, che per di più era menzognera.
  4. Sull’aborto. Pasolini scrisse: “Sono traumatizzato dalla legalizzazione dell’aborto, perché la considero, come molti, una legalizzazione dell’omicidio. Nei sogni, e nel comportamento quotidiano – cosa comune a tutti gli uomini – io vivo la mia vita prenatale, la mia felice immersione nelle acque materne: so che là io ero esistente. Mi limito a dir questo, perché, a proposito dell’aborto, ho cose più urgenti da dire. Che la vita sia sacra è ovvio: è un principio forte ancora che ogni principio della democrazia, ed è inutile ripeterlo. (…) L’aborto legalizzato è – su questo non c’è dubbio – una enorme comodità per la maggioranza. Soprattutto perché renderebbe ancora più facile il coito, a cui non ci sarebbero più praticamente ostacoli. Ma questa libertà del coito della “coppia” così com’è concepita dalla maggioranza – questa meravigliosa permissività nei suoi riguardi – da chi è stata tacitamente voluta, tacitamente promulgata e tacitamente fatta entrare, in modo ormai irreversibile, nelle abitudini? Dal potere dei consumi, dal nuovo fascismo. Esso si è impadronito delle esigenze di libertà, diciamo così, liberali e progressiste e, facendole sue, le ha vanificate, ha cambiato la loro natura.” Gli accenni alla vita prenatale, alle “acque materne”: per questo parlavo della sua spiritualità come di una “sublimazione della carne”. La carne dell’uomo. E poi della sua opera e del suo lascito. E si veda come le sue successive considerazioni morali siano poi distorte da quella mistica anti-borghese di cui parlavo sopra. Che sempre al fascismo arriva. E che non fanno onore alla sua intelligenza e alla sua sensibilità.
  5. E nella sua tragica capacità d’ingannarsi, magari sperava che fossero proprio i progressisti, in quanto forza incorrotta, pura, moralmente sana, in quanto la sua Chiesa di questa Terra, ad opporsi all’aborto! Per lui, ma solo per lui, ciò avrebbe significato nient’altro che coerenza! Ma, appunto, era solo il “sogno di una cosa”.

4 thoughts on “L’incubo di una cosa

  1. Ho letto, con un po’ di ritardo, comprese le osservazioni di un commentatore nostalgico, lì su Giornalettismo.
    Penso che quel commentatore sia semplicemente troppo nostalgico, e quindi tenda a ricordare solo quello che fa piacere a lui. Tuttavia, non sono completamente d’accordo con te su Pasolini. La ragione principale è che non fai distinzione fra le diverse epoche del suo pensiero, e, in particolare, non distingui le posizioni degli ultimi due anni da quelle precedenti. Due anni su 53 possono sembrare pochi, ma se sono i più recenti, e interrotti bruscamente, possono contare molto di più del loro rilievo numerico. In questi due anni (1974-75) Pasolini era entrato in polemica feroce con il PCI, e, in particolare con Maurizio Ferrara, direttore dell’Unità. Ma tutta l’intellighenzia, devota al PCI, gli si era rivoltata contro. E’ vero che lui continuava a traguardare la sua visione della società, e dei cambiamenti, attraverso una lente marxista. Ma il procedimento era tale da non distorcere la visione, perché lui non partiva da Marx per spiegare la realtà, ma usava -a volte- una nomenclatura marxista per definire i fenomeni reali che (secondo me lucidamente) vedeva. Non ci sono dubbi che si collocasse ormai a grande distanza dalla plumbea e immutabile visione del mondo nella quale ristagnava il PCI berlingueriano, la cui analisi politico/sociale era ferma agli anni ’50, se non ’40. E non c’è dubbio che la distanza si sarebbe ulteriormente divaricata se P. fosse sopravvissuto dentro l’ultimo quarto del secolo XX.
    Anche il primo brano che tu citi andrebbe, come si suol dire, contestualizzato. Infatti, quel brano è più un addio che una speranza nel futuro del PCI. E, successivamente, P. si è riferito ai giovani del PCI, più che al PCI, per indicare una fonte di speranza. Ma perché i giovani del PCI? perché gli parevano gli unici indenni dal messaggio consumistico (o capitalistico, nel suo lessico). E’ evidente che, se avesse visto i successivi sviluppi, da quei giovani (Veltroni, per esemplificare) si sarebbe dichiarato deluso. Come si sarebbe dichiarato deluso da quei giovani napoletani che all’epoca gli apparivano l’altra zona franca, socialmente parlando.
    Prima di proseguire, vorrei però essere sicuro che questo commento venga letto, visto che mi sono inserito con qualche giorno di ritardo.

    1. Che tu fossi completamente d’accordo con me non osavo minimamente sperarlo. Anzi, avendo letto nel tuo blog qualche pagina dedicata a Pasolini, di cui non ricordo il contenuto, ma da cui traspariva ammirazione, pensavo: “Se per caso passa di qui, mi distrugge!” Quindi sono quasi sollevato.
      Io ho scritto, con stile un po’ caustico, come spesso mi capita: “Una bella sensibilità, una bella sincerità, e una sociologia da quattro soldi.” Quindi non nego la lucidità della sua visione nel cogliere i minimi aspetti della “volgarità democratica”, chiamiamola così, della società moderna. In fondo egli cercava, da qualche parte, un Eden che non poteva esistere, perché “sociale”. Se anche gli fosse sembrato di capitare in uno di questi Eden, dopo un po’ ne avrebbe scoperta l’ipocrisia che in qualche modo caratterizza ogni società. Forse da un punto di vista intellettuale il marxismo, con la sua carica messianica, offriva un “linguaggio” adatto al suo pensiero politico e alle sue speranze; ma credo che egli sapesse benissimo, in cuor suo, che stava ingannando se stesso, e che andasse incontro alle delusioni con una sorta di tragico fatalismo. Mi pare che l’ambiguità di quell’inno alla purezza del PCI consista nel suo essere tragicamente fedele al “sogno” dello scrittore, ma anche straordinariamente aderente al giacobinismo della sinistra italiana. Se era un Addio, voleva essere un Addio leale.

  2. Mettiamoci d’accordo. L’adesione all’ideologia marxista da parte di tanti italiani usciti ancora giovani dall’epoca fascista fu molto spesso dettata da sinceri intenti. E, in quella generazione, credo che i cattolici riciclati fossero pochi.
    Il problema, o uno dei problemi, erano gli intellettuali, che pretendevano di adattare la realtà a certi schemi. Di questo atteggiamento, Adorno fu l’esponente di punta, e anche, secondo me, quello che fece più danno, visto che produsse gli adorniani. Per dire: Adorno cercava dappertutto il servo del capitale e il paladino dei proletari. Lui ci ricamava per bene sopra, ma poi, con la logica dei cerchi concentrici, man mano che ci si allontanava dalla fonte aumentava il numero degli orecchianti, tutti i particolari si perdevano, e restavano, per esempio, Stravinky cattivo e Schoenberg buono. Ancora oggi c’è un disarmante semplicismo, negli eredi di quegli intellettuali, nel cercare di individuare il nemico e l’amico, fregandosene di tutto il resto, o usando tutto il resto in modo strumentale. Naturalmente, gli epigoni attuali sono infinitamente più analfabeti degli intellettuali di allora. Ma l’atteggiamento è rimasto.
    Ecco: Pasolini non faceva parte di questi intellettuali organici piazzati nei cerchi concentrici. Questo bisogna dirlo, se no si distorce l’analisi. Senza dubbio, c’erano elementi di conservatorismo, anzi: elementi reazionari nel pensiero di Pasolini. E, d’altra parte, non è possibile amare qualcosa, senza desiderare che rimanga uguale a se stessa. Se uno ama il popolo, lo deve volere povero per sempre. E il riformismo del PCI non può andargli a genio, perché annacqua l’identità.

    1. “Ecco: Pasolini non faceva parte di questi intellettuali organici piazzati nei cerchi concentrici.” Certamente.
      Non volevo dire qualcosa di molto diverso quando ho scritto, sintetizzando: “Fu disperatamente irregolare e tragicamente organico.” “Tragicamente organico”: quindi con una certa grandezza, non di chi si piega alla logica della fazione, o peggio, alle esigenze del partito in senso stretto.
      E’ chiaro poi che se da una parte il riformismo del PCI non poteva andargli a genio, dall’altra l’identità del PCI era per lui, e solo per lui, qualcosa di completamente diverso da come l’intendevano i comunisti.

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